Marine Littering è il termine inglese che identifica il piano contro l’inquinamento marino da rifiuti plastici lanciato nel 2011 da 47 associazioni di settore provenienti da 34 diversi paesi.
E’ un problema molto grave che sta compromettendo seriamente la sopravvivenza dei nostri oceani.
Forse non ci rendiamo davvero conto del mostruoso impatto che abbiamo sul pianeta: se guardiamo al fenomeno poco conosciuto del Plastic Trash Vortex è facile inorridire vedendo quello che stiamo creando.
Continenti di spazzatura di plastica galleggiano sugli oceani formati dalle correnti dei mari e creano vere e proprie isole grandi come continenti, formate da spazzatura per oltre 10 metri di profondità.
E la fauna Muore, o sopravvive, come solo la natura sa fare, con delle deformazioni e delle difficoltà a volte inimmaginabili.
Cosa dobbiamo fare per risolvere il problema del Marine Littering?
Cambiare rotta, drasticamente e velocemente, cambiare il nostro approccio verso l’ambiente, anche nel nostro piccolo, in ogni gesto, perchè una soluzione definitiva è molto lontana, ma si può raggiunge solo se tutti muoviamo in quella direzione.
Recenti stime dell’UNEP hanno dimostrato che fino a 20 milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani di tutto il mondo ogni anno. Una volta in mare, la plastica non scompare, ma si decompone in microparticelle. (Che poi troviamo nel nostro cibo).
Il rapporto “Biodegradable Plastics and Marine Litter. Misconceptions, Concerns and Impacts on Marine Environments” presentato per il ventennale del Global Programme of Action for the Protection of the Marine Environment from Land-based Activities (GPA) mostra che non esistono soluzioni rapide al problema, ma che serve un approccio più responsabile per la gestione del fine vita dei manufatti in plastica per ridurre il loro impatto su oceani ed ecosistemi”.
Questa analisi porta dati poco incoraggianti: si evince infatti che le bioplastiche, ipotizzate come soluzione al problema, non sono una risposta all’inquinamento dei mari da rifiuti plastici.
In particolare, si legge nelle conclusioni: “La diffusione di prodotti etichettati biodegradabili non ridurrà in modo significativo
il volume di plastiche che finiscono negli oceani o i rischi fisici e chimici per l’ambiente marino”.
Questo perchè la completa degradazione delle bioplastiche avviene in condizioni che normalmente non si verificano in mare (temperature superiori a 50°C e nell’ambito di impianti di compostaggio industriale o nelle compostiere domestiche). Inoltre il fatto che sia etichettato come biodegradabile potrebbe indurre il consumatore a disperdere il manufatto (imballaggio, sacchetto ecc.) nell’ambiente, peggiorando la situazione.
Uno spiraglio di luce
Ma uno spiraglio c’è: sono stati avviati programmi per arrivare alla produzione di bioplastiche di nuova generazione sfruttando materiali organici come alghe, uova, rifiuti organici, latte, funghi: tutti studi in essere alle prime fase di sperimentazione, che però al momento non hanno ancora trovato un largo impiego nell’industria, ma che in futuro potrebbero segnare la svolta e risolvere il problema dell’inquinamento.
E dobbiamo anche esserne fieri, perchè è italiana la prima tecnologia verificata da Certiquality col programma pilota “Environmental Technology Verification” (ETV) promosso dalla Commissione Europea.
Lo studio della biodegradazione in mare è complicato e oneroso perché le prove “in campo” – necessarie per convalidare i risultati di laboratorio – devono essere compiute da biologi sommozzatori con attrezzature costose e spesso in situazioni ambientali difficili.
In attesa di soluzioni “dall’alto” cominciamo anche noi “dal basso” a combattere questa lotta per la sopravvivenza del nostro pianeta.